Avevamo un bellissimo e massiccio tavolone di legno, una stanza che lo ospitava e tutto intorno i nostri libri. Ci sedevamo a quel tavolo a sfogliare cataloghi, magari anche col pc aperto su qualche bel sito di design. Navigare non era ancora un veleno, ma noi non potevamo saperlo. Gli anni sono passati e quell’innocuo social è diventato un buco nero in cui sono stati risucchiati tutti i migliori stimoli, i migliori propositi. Siamo diventati degli scrollatori a tempo pieno, dei postatori a tempo pieno, sono spuntate le prime tendiniti da scroll ed i nostri figli hanno iniziato ad essere inseguiti con lo smartphone e bollati con un emoticon imbarazzante, con l’illusione di non averli già violati nella loro privacy di marmocchi.
Scriveva Colapesce di piatti condivisi prima ancora di essere mangiati, ma l’elenco è lungo: vestiti, libri, oggetti, cani, gatti, limonate, scopate, corpi nudi, corpi dall’alto, corpi dal basso, insomma tutto quello che una fotocamera può imprigionare noi lo abbiamo imprigionato di proposito. La banalità del male digitale è tutta qui, in questi automatismi.
Qualcuno ancora riesce a cucinare senza pensare a quanto la cosa possa essere instagrammabile? Incredibile come tutto quello in cui cerco di applicarmi finisca per essere filtrato dal meccanismo del perfezionismo da social mood. Siamo più riusciti a cucinare un piatto o tagliare banalmente una carota senza che la nostra testa, i nostri occhi stessero processando il tutto come una foto da postare su instagram o cercando di emularne una avvistata scrollando?
Qualcuno riesce ancora a guardare uno spettacolo offerto dalla natura come un prato in fiore o un tramonto senza sentire l’impulso di non dico fotografarlo, ma condividerlo?
Non vale lasciare le mani in tasca, parlo proprio di quell’istinto che sono sicura stiamo soffocando. Perché si fa avanti così prepotente, anche se non lo vorresti più?
Esiste un modo per estirpare questo istinto che banalizza e svilisce?
Esiste, come per le comuni dipendenze, una rehab alla quale affidarsi per ripulire il cervello e riuscire di nuovo a goderci la vita?
La nostra soglia di attenzione è condannata, come dicono gli studiosi, a restare quella di un pesce rosso oppure c’è ancora una speranza?
I più ottimisti direbbero che per il solo fatto di rendersene conto, uno potrebbe dirsi già sulla strada della redenzione, ma chi ti scrive in questo momento fa fatica a pensarla così facile, perché non sa più leggere un libro per oltre tre quattro minuti, non sa più ascoltare un album per intero e non ha mai più usato quella macchina fotografica per cui aveva risparmiato mesi e mesi.
Da dove si riparte?
]]>C’è questo libretto di School of Life che Noemi ha piazzato su uno dei nostri tavolini qui in negozio. Al mio rientro dal mese di polmonite l’ho trovato aperto su una pagina in cui c’è scritto a caratteri cubitali: PLAY NOT WORK.
E sì. Proprio vero. Mi ricordo che un tempo, soltanto pochi anni fa, giocavo di più. Nel senso, per quanto anche adesso credo di avere forti componenti di infantilismo, che in alcuni casi vanno bene in altri proprio no, devo dire che proprio ho la testa molto più pesante. Per esempio, mi ricordo che nel 2013 un paio di volte ho corso sui prati ridendo, nel 2014 ho visto molto più concerti che nel 2019, nel 2015 ho visitato musei, nel 2016 è nata Neve, nel 2017 sono tornato ad amare l’albero di Natale. Poi mi sa che sono diventato più serio. Sarà che sono diventato padre e devo ogni tanto fare anche quello autoritario altrimenti Neve, come si dice in gergo, “ce se rmagna”. Però mi dico che dovrei togliermi un po’ di infantilismo di dosso e giocare molto seriamente. Cioè, essere assolutamente composto nel mio volermi ritagliare dello spazio nella testa per tornare a correre sui prati.